Unreal TV: la cialtrona fa della televisione
Mail di Diego dell’11 settembre:
”Ci stai ancora a venire con me a Pordenone il 20 e il 21 per intervistare tutti quei bravi scrittori e scrittrici?
Io mi sto organizzando in questi giorni, sarebbe uno speciale Interzone, in chiave folle come piace a me e secondo me saresti perfetta, ci dividiamo interviste e toni, fammi sapere ASAP!!”< ?xml:namespace prefix = o ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:office" />
Sabato 20 settembre
Diego, con telecamera in mano: “Sai cosa devi fare?”
Io: “No.”
“Fra dieci minuti devi intervistare Enrico Brizzi.”
“E cosa gli chiedo, maledizione?”
“Inventati qualcosa.”
“Mi si è pezzata l’ascella.”
“Ecco, digli quello. Questo cos’è, il suo terzo romanzo?”
“Veramente è il sesto libro che pubblica, Diego.”
“Uh?”
Andiamo bene.
Enrico Brizzi è la mia bestia nera da sempre. Ha due anni meno di me. Ha pubblicato il suo primo romanzo quando io stavo ancora imparando a usare la tastiera del PC e scrivevo ancora terrificanti romanzetti in inglese. Adesso, a ventinove anni, è al sesto libro e fa lo scrittore a tempo pieno. Io ho trentun anni e faccio la progettista di corsi per assicuratori.
Io invidio quest’uomo. E poi non ne posso più di sentirmi paragonare a lui per via di Deadsexy.
Diego vorrebbe che gli dicessi tutte queste cose, ma io come giornalista-verità sono una schifezza, è per quello che non faccio la giornalista. Ho l’ascella pezzata e mi trema il ginocchietto. Devo trovarmi faccia a faccia con la misura del mio fallimento, non ho una sola domanda anche solo semi-intelligente da fargli e ho i capelli sporchi.
Per fortuna che abbiamo un amico in comune.
“Vecchio, dove sei?”
“In albergo, fra un po’ esco. Che succede?”
“Dammi una domanda intelligente, che devo intervistare Brizzi fra dieci minuti.”
“Ah. Oh, beh, non è un problema, dai. Chiedigli della sua tesi di laurea sugli ultras.”
“Vecchio, sei un genio. Ti ricompenserò… non so come.”
“Chiamami dopo e dimmi com’è andata. Sarà la ricompensa.”
L’incontro con l’autore Enrico Brizzi dura un’ora e mezza, tra la moderazione (lievemente soporifera) di Mauro Covacich, un intervallo causa scampanamento della vicina chiesa di S. Marco, un altro intervallo causa passaggio di un corteo nuziale, il passaggio suggestivo di un vecchio fricchettone in maglietta gialla, e la lettura di svariate pagine di Razorama.
L’intervista, invece, dura tre nanosecondi. (Chi vive in regione se la potrà vedere martedì alle 20.00, nel programma di Diego, Interzone.)
All’incontro con Isabella Santacroce (in camicetta di seta nera, pantaloni di vinile nero, calze a righe bianche e nere e anfibi) e Barbara Alberti (casacca di lino nero, pantaloni rosso mattone, l’immancabile crocchia da istitutrice bavarese in testa) c’è la folla.
Alberti e Santacroce formano una strana coppia. Molto amiche, mi dicono dalla regia: e assurdamente bene assortite. La Santacroce, con la sua languida oscura eccentricità, sembra una derivazione liquida della Alberti, impettita e grave, un po’ nonna un po’ dominatrice sadomaso. Si compensano e completano a vicenda, per proprietà transitiva, per osmosi.
“Voglio un bicchiere di vino” fa Diego.
“Io ho fame.”
“Non mangiare adesso, che c’hai l’adrenalina. E’ per quello che tutti i giornalisti sono alcolizzati o grassi. Io faccio parte della prima categoria.”
“No, ho proprio fame, è ora di cena.”
Si discute un po’ su cosa chiedere alla Santacroce, che io ho sempre trovato un po’ fasulla. Diego mi spara un pistolotto sulla necessità di dirle in faccia che io trovo che sia fasulla. Io nicchio. Faccio fatica a vedere che risultati potrebbe avere un attacco frontale del genere, a parte farla incazzare a bestia. Diego dice che non ho il coraggio di fare questa cosa. Io gli spiego per l’ennesima volta la differenza fra un giornalista e uno scrittore: chi scrive della realtà fatica ad inventarsene una fittizia, e chi invece per vocazione postula l’esistenza di altri mondi non trova molto interessante la realtà, se non come nutrimento di una storia.
Torniamo sul luogo dell’incontro. Isabella Santacroce sta leggendo – no, drammatizzando – un passo di un suo libro. La sua voce recitante è acuta e stridula, e il contenuto erotico del passo letto è rovinato da un palese difetto di pronuncia. Signore e signori, la dark lady della scrittura italiana parla con la lisca come Jovanotti.
“Thbattimi, thbattimi” recita lei.
E io in fondo alla sala ho la bocca spalancata per lo stupore.
Era meglio senza audio.
Sto quasi per commuovermi. Il mio cervellino di romanziera sta snocciolando tutta la storia dell’infanzia di questa ragazza fragile, timida e sfottuta, che crescendo si è rivestita dell’armatura di un personaggio per poter sopravvivere, e a dispetto di tutto è riuscita a scavarsi una nicchia, a vivere di parole, a conquistarsi un pubblico. Sono quasi ammirata. Sono quasi convinta. Sono quasi una fan.
L’innalzarsi del livello di decibel nella sala mi sbalza fuori dalla reverie. Barbara Alberti sta discutendo con qualcuno. A tutta prima sembra una donna in fondo alla sala, ma presto la situazione si fa tesa e Diego scatta dentro con la telecamera.
Io rimango in fondo alla stanza con l’espressione affamata del pubblico dei circenses. La Alberti si alza in piedi e grida all’indirizzo del vecchio fricchettone che avevo notato prima, all’incontro con Brizzi.
“Quest’uomo mi perseguita da anni, è fisicamente minaccioso, mi è entrato in casa! Non ha avuto rispetto per me o per la mia famiglia, io speravo fosse morto! Io non continuo finché non lo portate fuori!”
Un fan ossessivo? Il vecchio fricchettone?
Non hai idea del casino che sta venendo fuori, digito convulsamente sul cellulare.
Non capisco cosa succeda, forse la Santacroce ha fatto un gesto di sfida al pazzo, che le si avventa contro. Lei grida che se ne va, Covacich la calma e la fa sedere, lei non si muove, la Alberti è rigida di rabbia, l’incontro viene sospeso. Tiro fuori il microfono, come un reporter della CNN, e seguo Diego.
(continua…)