Scontrino blues

pubblicato da Giulia martedì, Aprile 17, 2007 20:57
Aggiunto alla categoria Triste mondo malato
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Capita che, la sera in cui leggo i post (peraltro non contrastanti fra loro) di Gianluca e Filippo Facci sulla questione dei cinesi a Milano (e altrove), mi viene voglia di imbottirmi di piatti a base di glutammato e olio da frittura. Sarà la suggestione, o sarà il fatto che non ho la minima voglia di cucinare. Comunque. Faccio a piedi i dieci minuti di strada che mi separano dal ristorante, e ritiro la mia cena. Euro cinque e sedici centesimi, che pago.

Niente scontrino.

Qualche tempo fa mi servivano un paio di pantofole. Entro in un negozietto di bric-à-brac, ne vedo un paio carine, rosa, pelosette, le prendo. Due euro. La ragazza (cinese) alla cassa, ancora una volta, non mi fa lo scontrino.

Le bancarelle di vestiti, scarpe, cosmetici di marca, bigiotteria vistosa e cinture di tela che sorgono davanti all’ingresso del supermercato vendono tutto a prezzi stracciati, e senza ricevuta fiscale. Sono gli unici? Provate a proporre a un idraulico libero professionista (italiano) di farvi un lavoro in nero, pagate meno voi ma lui non dichiara niente: ecco pronto il lavoro, qua i soldi, ci siamo visti e lo Stato non ne saprà mai nulla.

Non so nulla di come funzioni la società nella società che i cinesi hanno messo su in praticamente qualsiasi città italiana. Qui all’Esquilino, ad esempio, sono tanti ma non sono la totalità dei residenti: il loro, più che un microcosmo, è un microcosmo nel microcosmo di un quartiere dove la gente vive in dieci in due stanze e salta dalle finestre per sfuggire agli incendi, ma questa è un’altra storia. Dicevo, non so niente dei cinesi. I miei ultimi contatti diretti erano un ragazzo di Singapore che conoscevo a Trieste, e il cassiere adolescente di un ristorante cinese di S. Vito al Tagliamento. Un ragazzino che, mentre aspettavo le vaschette del takeaway, mi raccontava della fatica di imparare contemporaneamente il cinese mandarino e l’italiano, di andare a scuola per prendere la licenza media, e di trovarsi una fidanzata. Dubito facciano parte del “problema” di cui si parla.

Non so niente, eppure quel poco che so mi sembra evidente: non sono solo i cinesi il problema. Chiunque ti venda qualcosa senza farti uno scontrino o una fattura, di fatto, sta evadendo il fisco. Non paga le tasse, in pratica. E questo è abbastanza facile da verificare: si entra in un esercizio, si chiede di vedere il registratore di cassa. Ci vuol poco. E non è questione di razzismo o di persecuzione nei confronti dei cinesi in particolare. L’integrazione, la convivenza civile, passa anche dal versamento dei contributi di legge. Passa anche dall’osservanza di orari di lavoro umani: com’è possibile che, passando in quella certa via del Pigneto, a qualsiasi ora, dal lunedì alla domenica, si veda gente che cuce, gente che stira, gente che appende abiti a grucce? Sono in regola, queste persone? Che contratto hanno? Sono tutti parenti volenterosi e dediti all’impresa di famiglia?

Io non lo so, che cosa facciano i cinesi qui in Italia. Ignoro l’esistenza di oscure trame, esportazione di cadaveri e passaggio di documenti. Quello che so è che un sacco di gente (cinese e di altra nazionalità) non ti fa lo scontrino, non ti fa la ricevuta, non ti fa la fattura, e quindi non paga le tasse necessarie a far funzionare scuole, ospedali, asili, università, servizi sociali. E l’evasione fiscale non si combatte a chiacchiere, minacce e teorie del complotto.

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